
Inseguendo Rimbaud nel suo ultimo rifugio
di Giovanni Porzio
A Harar, in Etiopia, il poeta si lanciò in deliranti traffici. Armi, avorio, forse schiavi.
Ci siamo tornati. Un pezzo tormentato di Africa nel racconto di un grande inviato
HARAR. L'ultimo rifugio di Arthur Rimbaud, il luogo da dove sognava di tornare «con membra di ferro, la pelle scura, l’occhio furente» e da cui invece ripartì in fin di vita su «una barella coperta da una tenda», è una remota cittadina sull’altopiano etiopico che sovrasta i torridi deserti dell’Ogaden e della Dancalia. Harar, fondata nel X secolo, è uno dei più antichi insediamenti urbani dell’Africa orientale e la quarta città santa dell’Islam dopo la Mecca, Medina e Gerusalemme, con oltre ottanta moschee all’interno dei bastioni medievali che racchiudono il borgo di Jugol. Le facciate delle vecchie case sono ora rivestite d’intonaci dai colori psichedelici, turchese, giallo, fucsia, malva, che nascondono i muri di pietra grezza e di argilla. Minareti e campanili sorgono a poca distanza l’uno dall’altro e i faranj, gli stranieri portatori di dollari, sono i benvenuti. Ma Harar non era così accogliente quando nel gennaio 1855 vi penetrò, primo europeo, Richard Francis Burton, l’esploratore inglese che con John Speke scoprirà le sorgenti del Nilo bianco.
Burton entrò nella “città proibita” dalla porta di Erer, una delle cinque da cui ancora oggi si accede, e vi trascorse una decina di giorni, ospite-prigioniero dell’emiro Abubakr, «tra gente che odia i forestieri, sotto il tetto di un principe fanatico il cui minimo cenno significava morte». In First Footsteps in East Africa, Burton narra di una popolazione sfigurata dal vaiolo e dalla lebbra, abbrutita dal consumo di birra, d’idromele e di foglie di khat, un arbusto ricco di alcaloidi dagli effetti euforizzanti, simile alla coca o alla benzedrina. Salva solo le donne «dai larghi occhi e dalla pelle chiara» ornate di gioielli d’argento e corallo, con «le palpebre abbellite dal khol e mani e piedi dipinti di henna». L’attività principale, conclude, è «il commercio di schiavi, di avorio, di caffè».